In vetrina
IL CREATORE DI OMBREUn ragazzo si risveglia da un coma durato undici anni, metà della sua vita trascorsa in stato vegetativo; una ragazza scopre di avere dei poteri paranormali e il mentore che l’ha cresciuta non ne è affatto sorpreso; un uomo, che ha fatto perdere le sue tracce per oltre vent’anni, riappare per ultimare il puzzle che ha ordito per pareggiare i conti con il destino.
Tre vite distinte, apparentemente slegate, ma unite da un filo sottile che le unisce in maniera imprevedibile. Un viaggio, un susseguirsi di flashback e ambientazioni temporali differenti, nelle quali i personaggi scopriranno il loro passato e con esso la verità che li accomuna. Un’avventura surreale che porterà i protagonisti a compiere scelte che mineranno la loro morale, un gioco di specchi dove nulla è come appare.
Informazioni
- Genere: Fantasy, thriller
- Pagine: 265 pagine
- Pubblicazione: 2020
- ISBN: 979-83-8697-473-2
- Editore: Independently published
- Facebook: Luca Scopitteri
- Instagram: Luca Scopitteri

Apro gli occhi per via dell’ovattato rumore delle ruote di un carrello in allontanamento. Dalla luce che penetra attraverso le persiane, distinguo la poltrona a ridosso della finestra e il tavolino con l’ultimo libro che sto leggendo, rimasto aperto dalla sera prima. Come in tutti i risvegli dei giorni precedenti fatico a ricordare chi sono, come fossi nell’interregno tra il sonno e la veglia, in quello stato in cui non sai se stai dormendo o per svegliarti: quando i pensieri tornano nitidi mi passo una mano tra i capelli lisci, deglutendo amaro, rendendomi conto di aver trascorso metà della mia vita in uno stato onirico, un corpo immoto, spento come il televisore a muro che indica la sua presenza solo per quel led rosso sempre acceso.
Il calendario vicino alla porta del bagno indica mercoledì ventotto settembre duemilasedici e mi trovo nella clinica San Marco, una struttura specializzata nella riabilitazione a seguito di danni cerebrali. Una settimana fa mi sono risvegliato da un coma durato più di dieci anni e il mio nome è Jay.
Conto fino a cinque poi con uno sforzo mi metto seduto: le gambe non hanno ancora riacquistato la muscolatura necessaria a sorreggere il corpo, mentre le braccia sembrano reagire meglio alla fisioterapia. La cosa che mi fa arrabbiare è dover dipendere dagli altri, e anche se sorrido ai tentativi di incoraggiamento del personale quando mi dice che i progressi sono e saranno lenti ma visibili, il mio pensiero è che ad oggi la carrozzina è tutto ciò che unisce questo letto al resto del mondo.
Con un gemito provocato dallo sforzo allungo il braccio verso il pulsante: spero arrivi Laura, l’unica persona, insieme a Lorenzo, il fisioterapista, con cui sono riuscito ad aprirmi.
Quando la porta si spalanca non distinguo subito il volto di chi sta entrando per via del contrasto tra la penombra in cui mi trovo e la luce del corridoio: fa’ che sia Laura, fa’ che sia Laura, penso.
“Buongiorno Carla”, saluto invece quando dei passi pesanti si dirigono verso il letto. La donna ha una corporatura robusta, con modi spicci e decisi. È lei che si è presa cura del mio corpo negli anni addietro e nei primi giorni del risveglio quando, ignorando le lamentele che le propinavo ogni qualvolta si trattava di pulizia del corpo, replicava piccata: “Ho cresciuto quattro figli maschi. So esattamente quel che c’è da sapere!”
La voce con cui mi risponde ha un po’ di calore in più rispetto al giorno precedente: “Ciao Jay, vedo che ti sei messo seduto, bravo, fai progressi”, ma i modi sono rudi come al solito quando poggia il vassoio della colazione sulle mie gambe per andare ad aprire le persiane.
“Ricordati che alle dieci e mezza hai l’appuntamento con la dottoressa Benelli. Ritorno tra mezz’ora, così ci prepariamo.”
“E chi se lo scorda… devo proprio?” Il sorriso che sfoggio implora complicità, la ricerca di un’alternativa all’incontro con una rappresentante di una categoria che disprezzo; ma Carla risponde con uno sbuffo prima di richiudere dietro di sé la porta e trascinarsi una frase troncata a metà: “Vedrai che ti troverai bene; la dottoressa è una…”
“Come no, è una brava donna, un medico competente che avrà a cuore la mia salute…” Quante volte ho sentito ripetere queste frasi? Poso lo sguardo fuori dalla finestra sorseggiando il cappuccino ancora caldo e spiando il volo di una foglia Avevo dodici anni quando la mia vita si interruppe; il mio caso fece scalpore e fu una delle cause che portarono ad indagare su quella clinica e quel dottore… ma tutto questo lo so solo da pochi giorni.
A ogni modo, al di là dei fatti del Sanatorium e del dottor Mësmo, la mia infanzia fu comunque contraddistinta da una lunga serie di ricoveri, da dottori che profetizzavano una facile guarigione, a terapie più o meno invasive… possibile che l’ipotesi più semplice ‘una sfrenata immaginazione’ non fosse stata mai approfondita?
Mezzora più tardi Carla rientra nella stanza e mi aiuta a lavare e vestire: “Sulla carrozzina mi siedo da solo, però!”
Mentre vengo sospinto dall’infermiera lungo i corridoi, quello che era solo fastidio sta divenendo rabbia; me ne accorgo notando una goccia di sangue uscire dal pollice graffiato con tanta foga da farlo sanguinare. Ci fermiamo di fronte una porta e la donna bussa tre volte aprendola solo quando sente un deciso: “Avanti.”
La stanza è resa luminosa da due finestre che volgono una a est e l’altra a sud. Sulle pareti, bianche come la maggior parte della clinica, sono appesi alcuni attestati professionali oltre al diploma di laurea e all’abilitazione in psicologia conseguita nel duemilauno. Due piante posizionate agli angoli della stanza donano un po’ di colore, mentre il grosso tavolo che poggia su un pesante tappeto orientale troneggia come il bancone di una giuria.
L’infermiera lascia che mi avvicini da solo alla scrivania seguendomi a un paio di passi, poi mi poggia una mano sulla spalla e si allontana richiudendosi la porta alle spalle: “Piacere Giacomo, mi chiamo Benelli, Teresa Benelli, e sono la psicologa incaricata di accompagnarla nel percorso di recupero, se vorrà essere seguito da me.” La mano della dottoressa si allunga sopra il tavolo nella mia direzione; le sue dita sono calde e la sua presa decisa senza eccessi. Indossa una camicetta bianca e alle sue spalle si intravede una giacchetta nera appesa allo schienale della poltrona. I capelli castani sono pettinati all’indietro e tenuti insieme da un fermaglio, mentre i suoi occhi, dello stesso colore della chioma, sono gentili. Fuori da questo contesto l’avrei definita a pelle una persona solare, piacevole, ma troppe volte ho imparato a mie spese che l’aspetto è ininfluente rispetto alle azioni.
“Jay!”
“Come?” risponde aggrottando le sopracciglia e lanciando un’occhiata furtiva al foglio che tiene davanti.
“Jay, mi chiami Jay, non Giacomo. Giacomo era il nome di mio nonno.”
“E non le piace?”
“I miei genitori mi hanno chiamato così perché così doveva essere, ma non mi sono mai piaciute le scelte prestabilite. All’epoca Jay mi sembrava forte, ribelle, così ho sempre e solo detto che il mio nome era Jay. Cos’è, è iniziata la seduta?”
“No, era per fare due chiacchiere. Questa non è una visita ma solo un incontro per fare la reciproca conoscenza. Il mio compito è collaborare con altri dottori per permetterle un reinserimento nella società il meno traumatico possibile.”
“Traumatico? Dopo aver vissuto con genitori che mi credevano pazzo, portandomi da uno specialista a un altro per poi abbandonarmi nelle mani di uno squilibrato, e farmi finire in coma e passare dieci anni come un vegetale, intubato, pulito da estranei, mentre i miei compagni, gli amici, i conoscenti, crescevano facendo le loro esperienze… lei teme che io possa reinserirmi nel mondo senza traumi?” La voce sale di un tono mentre corruccio le sopracciglia: “Mi hanno detto che i membri della mia famiglia sono morti sei anni fa, quindi questo fa di me un sopravvissuto: vuole forse che ringrazi qualche santo per non avermi fatto fare la stessa fine? Questo mondo non necessita della mia presenza, dottoressa, perché fino a pochi giorni prima non sapeva neppure esistessi. Per cui, non parli con me di traumi!”
Il respiro si è fatto affannoso e mi accorgo di essermi sporto sulla scrivania fino ad appoggiarvi i gomiti, mentre le ultime parole sono uscite con rabbia, una rabbia covata per metà della mia esistenza; mi ributto indietro, sulla carrozzina, cercando di controllare il battito eccessivo del mio cuore: davanti non ho la dottoressa dagli occhi gentili, ma il senso di abbandono e svilimento, e il ricordo di torture disumane che dovrebbero essere precluse all’immaginazione.
La dottoressa abbassa lo sguardo come se si sentisse in colpa: “Capisco” riprende in tono neutro con uno sforzo. Tuttavia la mia collera è ancora lontana dall’essere placata: “Cos’è che capisce? Ha provato anche lei queste esperienze?”
“No, certo che no. Solo che ora capisco il perché del suo rancore verso i dottori e gli psicologi in particolare: era indicato nella sua scheda, ma questi sono solo fogli”, la donna solleva la carta per poi lasciarla ricadere sul tavolo “dati clinici e anamnesi che non possono raccontare quello che è una persona.”
Si appoggia allo schienale della poltrona volgendo per qualche secondo lo sguardo fuori dalla finestra. Quando ricomincia a parlare il suo viso è tornato deciso e professionale: “Jay, io non sono qui per curarla o giudicarla, perché non c’è nulla da curare se non il corpo, e nulla da giudicare se non i criminali che sono fuggiti. Sono qui perché si è risvegliato in un mondo diverso da quello che ha lasciato, perché era un ragazzino e ora un uomo, perché è confuso e non ha idea del perché sia capitato proprio a lei. Ma non deve dimenticare che ora è libero: libero di scegliere un altro dottore, di uscire da questa stanza o questa clinica e affrontare il mondo come meglio crede, libero anche di fare le scelte sbagliate. Io sono qui per lavorare con lei e tentare di trovare risposte alle sue domande.”
Ci fissiamo negli occhi e dopo attimi interminabili i muscoli si rilassano e inatteso nasce il desiderio di parlare.
Il mio silenzio, fatto non più di astio ma solo dell’incapacità di chi non sa da dove cominciare, la incoraggia a proseguire: “Le va di raccontarmi del suo risveglio, di questi primi giorni?”
Sospiro, sconfitto: “È tutto così assurdo. È come se la vita non si fosse interrotta undici anni fa, e io avessi fatto solo un lungo, interminabile sogno. Ora che sono sveglio mi trovo in un mondo che non conosco, senza amici o parenti, con tutto da ricominciare senza mai aver realmente iniziato.”
“Ha parlato di ‘un lungo, interminabile sogno’… cos’è per lei oggi un sogno?”
“Un incubo: da bambino credevo di poter materializzare i sogni, e l’unica cosa che si è materializzato è stato un inferno. Per fortuna non ne ho più fatti dal risveglio!”
“Ne avrebbe paura?”
Un nuovo sospiro: “Ho paura che potrebbe ricominciare tutto da capo.”
“I sogni sono un mezzo tra i più efficaci per riproporre le fantasie che vengono rimosse dall’area della coscienza durante il giorno; immagini e suoni sono riconosciuti come apparentemente reali dal soggetto sognante: questo è tutto. Non sono né giusti, né sbagliati, solo… sogni.”
“Avrei voluto che qualcuno mi dicesse queste cose a suo tempo.”
La dottoressa si lascia andare a un sorriso.
“Si sa qualcosa del dottor Mësmo? In clinica nessuno mi dice niente.”
La serenità scompare dal volto della psicologa; si appoggia alla scrivania, incrociando le mani che osserva con le sopracciglia aggrottate: “Probabilmente nessuno le dice niente perché in realtà non ne sanno nulla. È fuggito, insieme alla sua schiera di inservienti, quando le indagini partite poco dopo il suo caso e quello di altri bambini sono venute alla luce. Ha portato con sé i suoi studi e ricerche, lasciando come unica motivazione per i suoi gesti il solo sadismo di uno psicopatico. È stato soprannominato il “novello dottor Mengele”, ed etichettato come una vergogna per tutto l’ordine.”
“Come può essere sparito nel nulla?”
“Con la complicità di gente potente, capace di nascondere e finanziare un ricercato internazionale.”
“Spero che muoia!”
“È questo che vuole?”
“Sì! Cioè no… in realtà no. Non mi interessa di lui, di quello che fa o dove si trova. Ovviamente vorrei giustizia, ma mi accontenterei di una vita normale e oggi sembra un desiderio così lontano dato che non riesco nemmeno a camminare senza aiuto.”
“Sono certa che i progressi arriveranno. Non ha lesioni o danni fisici permanenti: solo un’atrofia muscolare che presto sarà un ricordo.”
Dalla porta giunge il rumore di un bussare leggero: “Avanti.”
Si affaccia nella stanza un infermiere basso e tarchiato, con gli occhiali dalle lenti spesse: “Mi scusi, il dottor Altavilla chiede di lei.”
“D’accordo, mi dia cinque minuti.”
Guardo l’orologio rendendomi conto che è già passata un’ora.
“Pensa che ci rivedremo?” la sua domanda è accompagnata da un’espressione serena, che le rende i lineamenti delicati.
“Ci penserò”, ma il sorriso è una risposta implicita.
“Allora se deciderà per il sì, vorrà dire che terrò la stessa ora di mercoledì libera per lei. La saluto Jay e spero di rivederla.”
“A presto dottoressa” le stringo la mano da sopra il tavolo, quindi mi volto con la carrozzina ed esco dalla stanza chiudendo la porta.
Leggi un estratto
IL CREATORE DI OMBRE
Fantasy o thriller? Scopri l’atmosfera magica ed inquietante di questo racconto: scorri la copertina ed inizia la lettura!
Se desideri leggere un intero capitolo, iscriviti alla mailing list dell’autore e lo riceverai nella tua casella eMail.
Iscriviti alla mailing list
Leggi un estratto
IL CREATORE DI OMBRE
Fantasy o thriller? Scopri l’atmosfera magica ed inquietante di questo racconto: scorri la copertina ed inizia la lettura!

Apro gli occhi per via dell’ovattato rumore delle ruote di un carrello in allontanamento. Dalla luce che penetra attraverso le persiane, distinguo la poltrona a ridosso della finestra e il tavolino con l’ultimo libro che sto leggendo, rimasto aperto dalla sera prima. Come in tutti i risvegli dei giorni precedenti fatico a ricordare chi sono, come fossi nell’interregno tra il sonno e la veglia, in quello stato in cui non sai se stai dormendo o per svegliarti: quando i pensieri tornano nitidi mi passo una mano tra i capelli lisci, deglutendo amaro, rendendomi conto di aver trascorso metà della mia vita in uno stato onirico, un corpo immoto, spento come il televisore a muro che indica la sua presenza solo per quel led rosso sempre acceso.
Il calendario vicino alla porta del bagno indica mercoledì ventotto settembre duemilasedici e mi trovo nella clinica San Marco, una struttura specializzata nella riabilitazione a seguito di danni cerebrali. Una settimana fa mi sono risvegliato da un coma durato più di dieci anni e il mio nome è Jay.
Conto fino a cinque poi con uno sforzo mi metto seduto: le gambe non hanno ancora riacquistato la muscolatura necessaria a sorreggere il corpo, mentre le braccia sembrano reagire meglio alla fisioterapia. La cosa che mi fa arrabbiare è dover dipendere dagli altri, e anche se sorrido ai tentativi di incoraggiamento del personale quando mi dice che i progressi sono e saranno lenti ma visibili, il mio pensiero è che ad oggi la carrozzina è tutto ciò che unisce questo letto al resto del mondo.
Con un gemito provocato dallo sforzo allungo il braccio verso il pulsante: spero arrivi Laura, l’unica persona, insieme a Lorenzo, il fisioterapista, con cui sono riuscito ad aprirmi.
Quando la porta si spalanca non distinguo subito il volto di chi sta entrando per via del contrasto tra la penombra in cui mi trovo e la luce del corridoio: fa’ che sia Laura, fa’ che sia Laura, penso.
“Buongiorno Carla”, saluto invece quando dei passi pesanti si dirigono verso il letto. La donna ha una corporatura robusta, con modi spicci e decisi. È lei che si è presa cura del mio corpo negli anni addietro e nei primi giorni del risveglio quando, ignorando le lamentele che le propinavo ogni qualvolta si trattava di pulizia del corpo, replicava piccata: “Ho cresciuto quattro figli maschi. So esattamente quel che c’è da sapere!”
La voce con cui mi risponde ha un po’ di calore in più rispetto al giorno precedente: “Ciao Jay, vedo che ti sei messo seduto, bravo, fai progressi”, ma i modi sono rudi come al solito quando poggia il vassoio della colazione sulle mie gambe per andare ad aprire le persiane.
“Ricordati che alle dieci e mezza hai l’appuntamento con la dottoressa Benelli. Ritorno tra mezz’ora, così ci prepariamo.”
“E chi se lo scorda… devo proprio?” Il sorriso che sfoggio implora complicità, la ricerca di un’alternativa all’incontro con una rappresentante di una categoria che disprezzo; ma Carla risponde con uno sbuffo prima di richiudere dietro di sé la porta e trascinarsi una frase troncata a metà: “Vedrai che ti troverai bene; la dottoressa è una…”
“Come no, è una brava donna, un medico competente che avrà a cuore la mia salute…” Quante volte ho sentito ripetere queste frasi? Poso lo sguardo fuori dalla finestra sorseggiando il cappuccino ancora caldo e spiando il volo di una foglia Avevo dodici anni quando la mia vita si interruppe; il mio caso fece scalpore e fu una delle cause che portarono ad indagare su quella clinica e quel dottore… ma tutto questo lo so solo da pochi giorni.
A ogni modo, al di là dei fatti del Sanatorium e del dottor Mësmo, la mia infanzia fu comunque contraddistinta da una lunga serie di ricoveri, da dottori che profetizzavano una facile guarigione, a terapie più o meno invasive… possibile che l’ipotesi più semplice ‘una sfrenata immaginazione’ non fosse stata mai approfondita?
Mezzora più tardi Carla rientra nella stanza e mi aiuta a lavare e vestire: “Sulla carrozzina mi siedo da solo, però!”
Mentre vengo sospinto dall’infermiera lungo i corridoi, quello che era solo fastidio sta divenendo rabbia; me ne accorgo notando una goccia di sangue uscire dal pollice graffiato con tanta foga da farlo sanguinare. Ci fermiamo di fronte una porta e la donna bussa tre volte aprendola solo quando sente un deciso: “Avanti.”
La stanza è resa luminosa da due finestre che volgono una a est e l’altra a sud. Sulle pareti, bianche come la maggior parte della clinica, sono appesi alcuni attestati professionali oltre al diploma di laurea e all’abilitazione in psicologia conseguita nel duemilauno. Due piante posizionate agli angoli della stanza donano un po’ di colore, mentre il grosso tavolo che poggia su un pesante tappeto orientale troneggia come il bancone di una giuria.
L’infermiera lascia che mi avvicini da solo alla scrivania seguendomi a un paio di passi, poi mi poggia una mano sulla spalla e si allontana richiudendosi la porta alle spalle: “Piacere Giacomo, mi chiamo Benelli, Teresa Benelli, e sono la psicologa incaricata di accompagnarla nel percorso di recupero, se vorrà essere seguito da me.” La mano della dottoressa si allunga sopra il tavolo nella mia direzione; le sue dita sono calde e la sua presa decisa senza eccessi. Indossa una camicetta bianca e alle sue spalle si intravede una giacchetta nera appesa allo schienale della poltrona. I capelli castani sono pettinati all’indietro e tenuti insieme da un fermaglio, mentre i suoi occhi, dello stesso colore della chioma, sono gentili. Fuori da questo contesto l’avrei definita a pelle una persona solare, piacevole, ma troppe volte ho imparato a mie spese che l’aspetto è ininfluente rispetto alle azioni.
“Jay!”
“Come?” risponde aggrottando le sopracciglia e lanciando un’occhiata furtiva al foglio che tiene davanti.
“Jay, mi chiami Jay, non Giacomo. Giacomo era il nome di mio nonno.”
“E non le piace?”
“I miei genitori mi hanno chiamato così perché così doveva essere, ma non mi sono mai piaciute le scelte prestabilite. All’epoca Jay mi sembrava forte, ribelle, così ho sempre e solo detto che il mio nome era Jay. Cos’è, è iniziata la seduta?”
“No, era per fare due chiacchiere. Questa non è una visita ma solo un incontro per fare la reciproca conoscenza. Il mio compito è collaborare con altri dottori per permetterle un reinserimento nella società il meno traumatico possibile.”
“Traumatico? Dopo aver vissuto con genitori che mi credevano pazzo, portandomi da uno specialista a un altro per poi abbandonarmi nelle mani di uno squilibrato, e farmi finire in coma e passare dieci anni come un vegetale, intubato, pulito da estranei, mentre i miei compagni, gli amici, i conoscenti, crescevano facendo le loro esperienze… lei teme che io possa reinserirmi nel mondo senza traumi?” La voce sale di un tono mentre corruccio le sopracciglia: “Mi hanno detto che i membri della mia famiglia sono morti sei anni fa, quindi questo fa di me un sopravvissuto: vuole forse che ringrazi qualche santo per non avermi fatto fare la stessa fine? Questo mondo non necessita della mia presenza, dottoressa, perché fino a pochi giorni prima non sapeva neppure esistessi. Per cui, non parli con me di traumi!”
Il respiro si è fatto affannoso e mi accorgo di essermi sporto sulla scrivania fino ad appoggiarvi i gomiti, mentre le ultime parole sono uscite con rabbia, una rabbia covata per metà della mia esistenza; mi ributto indietro, sulla carrozzina, cercando di controllare il battito eccessivo del mio cuore: davanti non ho la dottoressa dagli occhi gentili, ma il senso di abbandono e svilimento, e il ricordo di torture disumane che dovrebbero essere precluse all’immaginazione.
La dottoressa abbassa lo sguardo come se si sentisse in colpa: “Capisco” riprende in tono neutro con uno sforzo. Tuttavia la mia collera è ancora lontana dall’essere placata: “Cos’è che capisce? Ha provato anche lei queste esperienze?”
“No, certo che no. Solo che ora capisco il perché del suo rancore verso i dottori e gli psicologi in particolare: era indicato nella sua scheda, ma questi sono solo fogli”, la donna solleva la carta per poi lasciarla ricadere sul tavolo “dati clinici e anamnesi che non possono raccontare quello che è una persona.”
Si appoggia allo schienale della poltrona volgendo per qualche secondo lo sguardo fuori dalla finestra. Quando ricomincia a parlare il suo viso è tornato deciso e professionale: “Jay, io non sono qui per curarla o giudicarla, perché non c’è nulla da curare se non il corpo, e nulla da giudicare se non i criminali che sono fuggiti. Sono qui perché si è risvegliato in un mondo diverso da quello che ha lasciato, perché era un ragazzino e ora un uomo, perché è confuso e non ha idea del perché sia capitato proprio a lei. Ma non deve dimenticare che ora è libero: libero di scegliere un altro dottore, di uscire da questa stanza o questa clinica e affrontare il mondo come meglio crede, libero anche di fare le scelte sbagliate. Io sono qui per lavorare con lei e tentare di trovare risposte alle sue domande.”
Ci fissiamo negli occhi e dopo attimi interminabili i muscoli si rilassano e inatteso nasce il desiderio di parlare.
Il mio silenzio, fatto non più di astio ma solo dell’incapacità di chi non sa da dove cominciare, la incoraggia a proseguire: “Le va di raccontarmi del suo risveglio, di questi primi giorni?”
Sospiro, sconfitto: “È tutto così assurdo. È come se la vita non si fosse interrotta undici anni fa, e io avessi fatto solo un lungo, interminabile sogno. Ora che sono sveglio mi trovo in un mondo che non conosco, senza amici o parenti, con tutto da ricominciare senza mai aver realmente iniziato.”
“Ha parlato di ‘un lungo, interminabile sogno’… cos’è per lei oggi un sogno?”
“Un incubo: da bambino credevo di poter materializzare i sogni, e l’unica cosa che si è materializzato è stato un inferno. Per fortuna non ne ho più fatti dal risveglio!”
“Ne avrebbe paura?”
Un nuovo sospiro: “Ho paura che potrebbe ricominciare tutto da capo.”
“I sogni sono un mezzo tra i più efficaci per riproporre le fantasie che vengono rimosse dall’area della coscienza durante il giorno; immagini e suoni sono riconosciuti come apparentemente reali dal soggetto sognante: questo è tutto. Non sono né giusti, né sbagliati, solo… sogni.”
“Avrei voluto che qualcuno mi dicesse queste cose a suo tempo.”
La dottoressa si lascia andare a un sorriso.
“Si sa qualcosa del dottor Mësmo? In clinica nessuno mi dice niente.”
La serenità scompare dal volto della psicologa; si appoggia alla scrivania, incrociando le mani che osserva con le sopracciglia aggrottate: “Probabilmente nessuno le dice niente perché in realtà non ne sanno nulla. È fuggito, insieme alla sua schiera di inservienti, quando le indagini partite poco dopo il suo caso e quello di altri bambini sono venute alla luce. Ha portato con sé i suoi studi e ricerche, lasciando come unica motivazione per i suoi gesti il solo sadismo di uno psicopatico. È stato soprannominato il “novello dottor Mengele”, ed etichettato come una vergogna per tutto l’ordine.”
“Come può essere sparito nel nulla?”
“Con la complicità di gente potente, capace di nascondere e finanziare un ricercato internazionale.”
“Spero che muoia!”
“È questo che vuole?”
“Sì! Cioè no… in realtà no. Non mi interessa di lui, di quello che fa o dove si trova. Ovviamente vorrei giustizia, ma mi accontenterei di una vita normale e oggi sembra un desiderio così lontano dato che non riesco nemmeno a camminare senza aiuto.”
“Sono certa che i progressi arriveranno. Non ha lesioni o danni fisici permanenti: solo un’atrofia muscolare che presto sarà un ricordo.”
Dalla porta giunge il rumore di un bussare leggero: “Avanti.”
Si affaccia nella stanza un infermiere basso e tarchiato, con gli occhiali dalle lenti spesse: “Mi scusi, il dottor Altavilla chiede di lei.”
“D’accordo, mi dia cinque minuti.”
Guardo l’orologio rendendomi conto che è già passata un’ora.
“Pensa che ci rivedremo?” la sua domanda è accompagnata da un’espressione serena, che le rende i lineamenti delicati.
“Ci penserò”, ma il sorriso è una risposta implicita.
“Allora se deciderà per il sì, vorrà dire che terrò la stessa ora di mercoledì libera per lei. La saluto Jay e spero di rivederla.”
“A presto dottoressa” le stringo la mano da sopra il tavolo, quindi mi volto con la carrozzina ed esco dalla stanza chiudendo la porta.
Se desideri leggere un intero capitolo, iscriviti alla mailing list dell’autore e lo riceverai nella tua casella eMail.
Iscriviti alla mailing list
Autore
Luca Scopitteri nasce a Novara nel 1977.
Si laurea in Scienze Politiche, indirizzo storico, con una tesi sulla città di Novara nella prima metà del Seicento.
Nel 2017 pubblica il suo romanzo d’esordio “Il creatore di sogni”, primo di una trilogia.
Nel 2020 “Il creatore di ombre”, il secondo libro della serie, viene pubblicato dalla casa editrice Bookabook. Nello stesso anno, vince il primo premio al Concorso Letterario Internazionale Lago Gerundo con il racconto horror “Gioca con me”.
Amante di storia, sport e musica, i suoi temi trattano realtà distopiche, soprannaturali, nelle quali non esistono eroi senza macchia, e anche le persone più comuni possono rivelarsi straordinarie.
«Un libro è un viaggio, l’esplorazione da protagonista delle terre di confine tra il sogno e la realtà.»