In vetrina

GIOCA CON ME

Durante una gita tra le montagne della Val d’Ossola, una ragazza scompare. I carabinieri seguono la pista di un rapimento, mentre il fidanzato, Guido, è convinto che la sparizione di Francesca sia opera di un essere soprannaturale che infesta i boschi. Insieme all’amico Stefano, Guido inizia la ricerca della fidanzata per conto proprio, mentre misteriosi eventi sconvolgono la sua quotidianità. Più la convinzione del soprannaturale si radica in lui, più Stefano ritiene che l’amico sia vittima di un raggiro. L’arrivo di un uomo dal passato oscuro, Mario Spani, getta altre ombre su una storia forse iniziata negli anni Sessanta all’ospedale psichiatrico di Novara. Il rapporto tra i due amici diventa sempre più conflittuale e si radicalizza in opposte convinzioni che li fa allontanare. Chi ha rapito Francesca?

Informazioni

  • Genere: Thriller soprannaturale
  • Pagine: 272 pagine
  • Pubblicazione: 2023
  • ISBN: 979-12-5527-053-9
  • Editore: Morellini
  • Facebook: Luca Scopitteri
  • Instagram: Luca Scopitteri

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copertina
Luca Scopitteri
Gioca con me

Le porte scorrevoli dell’ascensore si aprirono con un rumore metallico e la luce della cabina tremolò per un attimo.

Guido restò fermo qualche secondo, come in attesa di un segnale, come se non ricordasse il motivo per cui era lì e la porta di fronte non fosse quella di casa sua.

Erano passati sei giorni dall’incidente, giornate trascorse in ospedale a eseguire test, a riprendersi dalle ferite e a rispondere alle domande dei carabinieri, a tentare di ricostruire i minuti che avevano preceduto il “dopo”.

Fece un passo avanti e si ritrovò sul pianerottolo.

Un lamento meccanico alle sue spalle lo avvertì che l’ascensore si stava preparando a una nuova corsa. Attutito, come se non volesse disturbare, dal suo appartamento giungeva lo squillo del telefono.

Inserì la chiave nella serratura ed entrò.

L’ingresso era illuminato dal colore rosato del sole al tramonto, un sole che a quell’ora e in quel periodo dell’anno inondava il balcone.

Lanciò le chiavi sul mobile dell’ingresso e lasciò cadere per terra il sacchetto che conteneva alcuni oggetti personali e i vestiti.

Si guardò in giro, a disagio in quella casa ristrutturata e arredata di recente, pronta ad accogliere una giovane coppia e divenuta all’improvviso una scatola vuota.

Il telefono smise di suonare.

Entrò in cucina notando nel lavello i piatti usati qualche sera prima. Si avvicinò e ne sollevò uno, sorridendo mentre con gli occhi della mente ritornava al momento in cui li aveva impilati. “Non fai prima a metterli in lavastoviglie?”

Lui, invece, li aveva sciacquati a mano. Lavare i piatti era una cosa che lo rilassava.

In quel momento non ricordava il motivo per cui erano rimasti lì.

Il telefono ricominciò a squillare.

Aprì il frigorifero. La poca frutta e verdura era ancora in buono stato. Più in basso, tra una bottiglia di vino rosso e un succo all’arancia, c’erano due lattine di birra: ne afferrò una portandosela alla fronte, accorgendosi appena che il telefono aveva smesso di suonare.

Con un colpo del piede richiuse lo sportello e si avvicinò alla finestra da cui svettava la Cupola di San Gaudenzio; sei piani più in basso la signora Morelli, una vedova solitaria, stava oltrepassando il cancello per portare a passeggio il suo cagnolino; alcuni bambini giocavano a palla contro il muro dirimpetto ai garage, producendo quel rumore che infastidiva così tanto gli inquilini dei primi piani. Sorrise al pensiero che una ventina d’anni prima sarebbe stato uno di loro.

Ancora una volta il telefono riprese a suonare.

Guido si voltò a osservare quell’oggetto che implorava attenzioni. Sollevò la linguetta della lattina senza distogliere lo sguardo dall’apparecchio, scrutandolo come fosse un oggetto estraneo, alieno. Bevve la bevanda per metà prima che arrivasse il terzo squillo... o forse il quarto?

Non importava, non era un reale fastidio; era più come un ospite inatteso che, una volta giunto, si ferma un attimo e se ne va.

Andò in bagno chiudendosi la porta alle spalle. Aprì l'acqua della doccia e si voltò verso lo specchio: nel riflesso vedeva un volto stanco, con la barba più lunga del solito; sulla fronte, sopra l’occhio sinistro, un grosso cerotto.

“Non bagni la ferita, mi raccomando. E torni fra una settimana per levare i punti.”

Sollevò un angolo della medicazione fino a scoprire il taglio suturato. Era lungo circa sette centimetri, una linea sottile che spiccava tra il rosso del Betadine, il disinfettante che gli avevano applicato, e un alone violaceo. Si avvicinò allo specchio: l’occhio era ancora arrossato, molto meno, comunque, dell’ultima volta che l’aveva visto ormai un paio di giorni prima.

Si rimise il cerotto. Con molta fatica e una fitta che gli levò il fiato, si sfilò i vestiti. Una grossa ecchimosi gli contornava il costato, sempre sul lato sinistro, quello in cui si era accanita con maggior forza la violenza dell’impatto tra l’auto e l’albero. Tastò la zona con le dita, producendo una pressione che gli fece chiudere gli occhi. Ripeté il gesto con maggiore forza, come cercando di sostituire con il dolore fisico quello che gli opprimeva l’animo. Riprese fiato e infine entrò nella doccia.

L’acqua tiepida gli restituì un po’ di sollievo. Sollevò il viso lasciando che il getto gli inondasse la faccia, appena consapevole delle raccomandazioni del medico.

Passarono diversi minuti prima di ruotare la manopola per interrompere il flusso. Si frizionò il corpo con un grosso asciugamano, prestando attenzione nei punti doloranti; si avvolse il telo in vita quindi, recuperata la lattina di birra, svuotò l’altra metà.

Fece una smorfia, infastidito che fosse tiepida.

Raccolse i pantaloni da terra e dalla tasca posteriore sfilò il cellulare: il display indicava le diciannove e venti e tre chiamate di Stefano.

In quell’istante il telefono si mise a vibrare e Guido premette il tasto di risposta. «Allora ci sei.»

La voce dell'amico lo aveva preceduto.

«Già.»

«È da mezz'ora che ti chiamo: a casa, sul cellulare. Pensavo di aver capito male e che fossi ancora in ospedale.»

«Sono rientrato da poco. Tu, piuttosto, dove sei?»

«A Malpensa.»

Guido fece un verso di disappunto: «Non dovevi rientrare fra una settimana?».

«Sì, ma il corso era di una noia mortale. E poi il capo mi vuole bene. Mi ha procurato un biglietto di ritorno in uno schioccar di dita appena gliel’ho chiesto.»

«Certo, come no.»

Guido sapeva bene che era impossibile: quell’uomo non voleva bene a nessuno, soprattutto a sé stesso.

I motori di un aereo sovrastarono le parole di Stefano.

«Puoi ripetere? Non ti ho sentito.»

«Ho detto» Stefano prese fiato prima di proseguire, «scusami per non essere tornato prima. L’ho saputo solo due giorni fa».

Ci fu un momento di silenzio: anche lui conosceva bene Francesca.

«Va bene così. Anzi, non saresti dovuto rientrare. Conoscendo “testa di bue”, non voglio immaginare cosa ti ha detto.»

L’amico ridacchiò. «Senti, ti va di vederci stasera? Sto per prendere la corriera. Tra una quarantina di minuti sono a Novara. Ti passo a prendere e andiamo a bere una birra.»

Fuori dalla finestra il rosa del tramonto aveva lasciato spazio al blu scuro del crepuscolo. Guido sospirò: «No, meglio di no. Domani devo alzarmi presto. Facciamo un’altra volta».

Passarono alcuni istanti, quindi Stefano riprese: «Vai a cercarla?». Guido sorrise. L’amico lo conosceva troppo bene.

«Se vai a cercarla vengo anch’io. A che ora ti passo a prendere?»

«Senti, Ste...»

«Non dire nulla che non sia un orario. Sei malconcio e hai bisogno di qualcuno che ti tenga d’occhio. Inoltre, con la macchina rotta, come ci arrivi in Val d’Ossola? Senza contare che Francesca è anche mia amica. Ti servono altre motivazioni?»

Sospirò: «No, hai vinto. Facciamo alle sei?».

«Ok. Ehi, stanno partendo. Scappo, a domattina.»

Guido quasi non sentì le ultime parole.

Ancora avvolto nell’asciugamano, tornò in cucina senza riuscire a togliersi un accenno di sorriso. Anche se era solo una sfumatura, erano diversi giorni che non appariva.

Prese due fette di pancarré e aprì il frigorifero alla ricerca di qualcosa per farcirlo: del prosciutto confezionato e una sottiletta di formaggio.

«E cena sia.»

Tornò a guardare il lavello e il suo contenuto di piatti puliti. Ora ricordava perché non li aveva ritirati: le braccia di lei lo avevano avvolto da dietro. Un bacio sul collo si era trasformato in un morso delicato. Una mano leggera era scivolata sul suo corpo, in un gesto che sapeva di invito e di promessa.

Il telefono riprese a suonare. Aggrottò la fronte e raggiunse il cordless: «Pronto?».

Il ricevitore non emetteva alcun suono: «Stefano, sei tu?».

Lo premette più forte contro l'orecchio.

Sembrava che in sottofondo ci fosse un rumore, come un fruscio: «Pronto?» ripeté piano.

Al suono di prima se ne erano aggiunti altri, ugualmente indistinti: potevano essere il vento o lo scricchiolio di rami secchi.

D’improvviso più nulla, il telefono era tornato libero.

Guido rigirò l’apparecchio tra le mani; quindi, adagio, come se un movimento brusco potesse risvegliare quei suoni, lo ripose nel suo alloggiamento.

Un’interferenza, si disse.

Guardò il tramezzino, lo avvolse in un tovagliolo di carta e lo ripose nel frigorifero.

La fame era svanita.

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Un thriller soprannaturale dove il mistero si incontra e si scontra con la realtà: scorri la copertina e inizia la lettura!

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Le porte scorrevoli dell’ascensore si aprirono con un rumore metallico e la luce della cabina tremolò per un attimo.

Guido restò fermo qualche secondo, come in attesa di un segnale, come se non ricordasse il motivo per cui era lì e la porta di fronte non fosse quella di casa sua.

Erano passati sei giorni dall’incidente, giornate trascorse in ospedale a eseguire test, a riprendersi dalle ferite e a rispondere alle domande dei carabinieri, a tentare di ricostruire i minuti che avevano preceduto il “dopo”.

Fece un passo avanti e si ritrovò sul pianerottolo.

Un lamento meccanico alle sue spalle lo avvertì che l’ascensore si stava preparando a una nuova corsa. Attutito, come se non volesse disturbare, dal suo appartamento giungeva lo squillo del telefono.

Inserì la chiave nella serratura ed entrò.

L’ingresso era illuminato dal colore rosato del sole al tramonto, un sole che a quell’ora e in quel periodo dell’anno inondava il balcone.

Lanciò le chiavi sul mobile dell’ingresso e lasciò cadere per terra il sacchetto che conteneva alcuni oggetti personali e i vestiti.

Si guardò in giro, a disagio in quella casa ristrutturata e arredata di recente, pronta ad accogliere una giovane coppia e divenuta all’improvviso una scatola vuota.

Il telefono smise di suonare.

Entrò in cucina notando nel lavello i piatti usati qualche sera prima. Si avvicinò e ne sollevò uno, sorridendo mentre con gli occhi della mente ritornava al momento in cui li aveva impilati. “Non fai prima a metterli in lavastoviglie?”

Lui, invece, li aveva sciacquati a mano. Lavare i piatti era una cosa che lo rilassava.

In quel momento non ricordava il motivo per cui erano rimasti lì.

Il telefono ricominciò a squillare.

Aprì il frigorifero. La poca frutta e verdura era ancora in buono stato. Più in basso, tra una bottiglia di vino rosso e un succo all’arancia, c’erano due lattine di birra: ne afferrò una portandosela alla fronte, accorgendosi appena che il telefono aveva smesso di suonare.

Con un colpo del piede richiuse lo sportello e si avvicinò alla finestra da cui svettava la Cupola di San Gaudenzio; sei piani più in basso la signora Morelli, una vedova solitaria, stava oltrepassando il cancello per portare a passeggio il suo cagnolino; alcuni bambini giocavano a palla contro il muro dirimpetto ai garage, producendo quel rumore che infastidiva così tanto gli inquilini dei primi piani. Sorrise al pensiero che una ventina d’anni prima sarebbe stato uno di loro.

Ancora una volta il telefono riprese a suonare.

Guido si voltò a osservare quell’oggetto che implorava attenzioni. Sollevò la linguetta della lattina senza distogliere lo sguardo dall’apparecchio, scrutandolo come fosse un oggetto estraneo, alieno. Bevve la bevanda per metà prima che arrivasse il terzo squillo... o forse il quarto?

Non importava, non era un reale fastidio; era più come un ospite inatteso che, una volta giunto, si ferma un attimo e se ne va.

Andò in bagno chiudendosi la porta alle spalle. Aprì l'acqua della doccia e si voltò verso lo specchio: nel riflesso vedeva un volto stanco, con la barba più lunga del solito; sulla fronte, sopra l’occhio sinistro, un grosso cerotto.

“Non bagni la ferita, mi raccomando. E torni fra una settimana per levare i punti.”

Sollevò un angolo della medicazione fino a scoprire il taglio suturato. Era lungo circa sette centimetri, una linea sottile che spiccava tra il rosso del Betadine, il disinfettante che gli avevano applicato, e un alone violaceo. Si avvicinò allo specchio: l’occhio era ancora arrossato, molto meno, comunque, dell’ultima volta che l’aveva visto ormai un paio di giorni prima.

Si rimise il cerotto. Con molta fatica e una fitta che gli levò il fiato, si sfilò i vestiti. Una grossa ecchimosi gli contornava il costato, sempre sul lato sinistro, quello in cui si era accanita con maggior forza la violenza dell’impatto tra l’auto e l’albero. Tastò la zona con le dita, producendo una pressione che gli fece chiudere gli occhi. Ripeté il gesto con maggiore forza, come cercando di sostituire con il dolore fisico quello che gli opprimeva l’animo. Riprese fiato e infine entrò nella doccia.

L’acqua tiepida gli restituì un po’ di sollievo. Sollevò il viso lasciando che il getto gli inondasse la faccia, appena consapevole delle raccomandazioni del medico.

Passarono diversi minuti prima di ruotare la manopola per interrompere il flusso. Si frizionò il corpo con un grosso asciugamano, prestando attenzione nei punti doloranti; si avvolse il telo in vita quindi, recuperata la lattina di birra, svuotò l’altra metà.

Fece una smorfia, infastidito che fosse tiepida.

Raccolse i pantaloni da terra e dalla tasca posteriore sfilò il cellulare: il display indicava le diciannove e venti e tre chiamate di Stefano.

In quell’istante il telefono si mise a vibrare e Guido premette il tasto di risposta. «Allora ci sei.»

La voce dell'amico lo aveva preceduto.

«Già.»

«È da mezz'ora che ti chiamo: a casa, sul cellulare. Pensavo di aver capito male e che fossi ancora in ospedale.»

«Sono rientrato da poco. Tu, piuttosto, dove sei?»

«A Malpensa.»

Guido fece un verso di disappunto: «Non dovevi rientrare fra una settimana?».

«Sì, ma il corso era di una noia mortale. E poi il capo mi vuole bene. Mi ha procurato un biglietto di ritorno in uno schioccar di dita appena gliel’ho chiesto.»

«Certo, come no.»

Guido sapeva bene che era impossibile: quell’uomo non voleva bene a nessuno, soprattutto a sé stesso.

I motori di un aereo sovrastarono le parole di Stefano.

«Puoi ripetere? Non ti ho sentito.»

«Ho detto» Stefano prese fiato prima di proseguire, «scusami per non essere tornato prima. L’ho saputo solo due giorni fa».

Ci fu un momento di silenzio: anche lui conosceva bene Francesca.

«Va bene così. Anzi, non saresti dovuto rientrare. Conoscendo “testa di bue”, non voglio immaginare cosa ti ha detto.»

L’amico ridacchiò. «Senti, ti va di vederci stasera? Sto per prendere la corriera. Tra una quarantina di minuti sono a Novara. Ti passo a prendere e andiamo a bere una birra.»

Fuori dalla finestra il rosa del tramonto aveva lasciato spazio al blu scuro del crepuscolo. Guido sospirò: «No, meglio di no. Domani devo alzarmi presto. Facciamo un’altra volta».

Passarono alcuni istanti, quindi Stefano riprese: «Vai a cercarla?». Guido sorrise. L’amico lo conosceva troppo bene.

«Se vai a cercarla vengo anch’io. A che ora ti passo a prendere?»

«Senti, Ste...»

«Non dire nulla che non sia un orario. Sei malconcio e hai bisogno di qualcuno che ti tenga d’occhio. Inoltre, con la macchina rotta, come ci arrivi in Val d’Ossola? Senza contare che Francesca è anche mia amica. Ti servono altre motivazioni?»

Sospirò: «No, hai vinto. Facciamo alle sei?».

«Ok. Ehi, stanno partendo. Scappo, a domattina.»

Guido quasi non sentì le ultime parole.

Ancora avvolto nell’asciugamano, tornò in cucina senza riuscire a togliersi un accenno di sorriso. Anche se era solo una sfumatura, erano diversi giorni che non appariva.

Prese due fette di pancarré e aprì il frigorifero alla ricerca di qualcosa per farcirlo: del prosciutto confezionato e una sottiletta di formaggio.

«E cena sia.»

Tornò a guardare il lavello e il suo contenuto di piatti puliti. Ora ricordava perché non li aveva ritirati: le braccia di lei lo avevano avvolto da dietro. Un bacio sul collo si era trasformato in un morso delicato. Una mano leggera era scivolata sul suo corpo, in un gesto che sapeva di invito e di promessa.

Il telefono riprese a suonare. Aggrottò la fronte e raggiunse il cordless: «Pronto?».

Il ricevitore non emetteva alcun suono: «Stefano, sei tu?».

Lo premette più forte contro l'orecchio.

Sembrava che in sottofondo ci fosse un rumore, come un fruscio: «Pronto?» ripeté piano.

Al suono di prima se ne erano aggiunti altri, ugualmente indistinti: potevano essere il vento o lo scricchiolio di rami secchi.

D’improvviso più nulla, il telefono era tornato libero.

Guido rigirò l’apparecchio tra le mani; quindi, adagio, come se un movimento brusco potesse risvegliare quei suoni, lo ripose nel suo alloggiamento.

Un’interferenza, si disse.

Guardò il tramezzino, lo avvolse in un tovagliolo di carta e lo ripose nel frigorifero.

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Autore

Luca Scopitteri nasce a Novara nel 1977.

Si laurea in Scienze Politiche, indirizzo storico, con una tesi sulla città di Novara nella prima metà del Seicento.

Nel 2017 pubblica il suo romanzo d’esordio “Il creatore di sogni”, primo di una trilogia.

Nel 2020 “Il creatore di ombre”, il secondo libro della serie, viene pubblicato dalla casa editrice Bookabook. Nello stesso anno, vince il primo premio al Concorso Letterario Internazionale Lago Gerundo con il racconto horror “Gioca con me”.

Amante di storia, sport e musica, i suoi temi trattano realtà distopiche, soprannaturali, nelle quali non esistono eroi senza macchia, e anche le persone più comuni possono rivelarsi straordinarie.

«Un libro è un viaggio, l’esplorazione da protagonista delle terre di confine tra il sogno e la realtà.»

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